Friday, March 21, 2014

Su Wei Jinsheng da "Operazione Idigov, come il @partitoradicale sconfisse la Russia di Putin alle Nazioni unite nel 2000"


Wei Jinsheng fuma come una ciminiera. Anzi fuma, o almeno fumava, come Marco Pannella, Emma Bonino e Olivier Dupuis messi insieme. Sarà stato il jetlag, sarà stata la tensione, sarà stata la possibilità di assaporare finalmente delle Marlboro non made in China, fatto sta che per parlarci con la calma necessaria per articolare un discorso complesso bisognava appartarsi nella puzzolentissima zona fumatori del caffé del Palais des Nations. E meno male che almeno c’era quello spazio. L’alternativa, infatti, sarebbe stata conferire nel parcheggio dei tassisti turchi fuori dall’edificio centrale dove, proverbialmente tutti hanno sempre una sigaretta in bocca. Io odio il fumo.

Wei Jinsheng era un fiume in piena quando parlava. La povera Ciping, che sicuramente conosceva a memoria i racconti, le denunce e anche gli aneddoti del suo capo e leader, traduceva tutto con appassionata velocità, concedendosi ogni tanto qualche chiosa per rendere meno intricata la matassa dei racconti di Wei zeppi di nomi e cognomi cinesi che a me sembravano tutti uguali.

Ottenuta la libertà condizionale nel 1993, Wei aveva iniziato a darsi da fare per raccogliere soldi in aiuto delle famiglie dei parenti delle vittime di Tienanmen. Questa sua opera di solidarietà non solo fu bloccata qualche mese dopo, ma gli costò l’accusa di finanziamento ad attività sovversive e un nuovo arresto nel 1995.

Il punto sul quale Wei avrebbe preso la parola era quello relativo ai diritti dei lavoratori. Come spesso ci accadeva, dopo un’introduzione che corrispondeva al tema sul quale si era chiesta la parola, suggerivamo che l’oratore si concentrasse su tutt’altro. Aderire al titolo dell’intervento per qualche riga serviva solo a non farsi togliere la parola dalla presidenza per ‘estraneità di materia’. Dopo un paio di critiche circa i diritti lavorali in Cina, Wei affrontò, per l’appunto, il tabù del massacro di piazza Tienanmen. Fece esplicito riferimento ad alcuni parenti di studenti e giovani operai rimasti uccisi durante le manifestazioni del 4 giugno 1989. Secondo Wei, per anni le famiglie di chi aveva preso parte a quelle dimostrazioni erano state discriminate se non maltrattate dalle autorità cinesi per le scelte dei propri figli.

Nel suo lungo intervento, Wei denunciò anche un episodio increscioso occorso qualche giorno prima proprio alle Nazioni Unite di Ginevra. Alcuni diplomatici cinesi avevano infatti chiamato la sicurezza dell’Onu per far cacciare una rappresentanza di parenti della vittime di Tienanmen che stavano consegnando un dossier sulle condizioni di prigionia imposte ai loro figli dopo le manifestazioni del 1989 alle varie delegazioni, ivi compresa quella della Repubblica Popolare Cinese. Di quella delegazione mi ero dovuto occupare anche io perché, naturalmente, era entrata al Palais des Nations grazie al badge del Partito Radicale Transnazionale. Malgrado la denuncia dell’incidente, anche l’intervento di Wei non suscitò alcuna reazione governativa.

Se la diplomazia cinese faceva finta che Wei non fosse Wei – anzi, che Wei non fosse a Ginevra – le sue conferenze stampa erano sempre partecipatissime e fruttuose, almeno per lui. La Tribune de Génève gli dedicò la prima pagina, senza però ricordare che era lì a nome e per conto del Partito Radicale, e sue interviste apparvero un po’ dappertutto sulla stampa e le tv di mezzo mondo. Dopo la sorpresa dell'arrivo di Wei e i parenti delle vittime, accreditate col giochino della cancellazione dei nomi e la sostituzione all'ultimo minuto, mi fu detto che la delegazione cinese aveva rafforzato il controllo al villino degli accrediti. Giunti dove eravamo, solo l’arrivo del Dalai Lama in persona avrebbe potuto irritare maggiormente Pechino. Offrii il pranzo alla bionda spagnola per ringraziarla.

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